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Ordinanza n. 205 del 08/02/2012


Oggetto: Ordinanza dell'8 febbraio 2012 emessa dal Tribunale di Oristano nel procedimento penale a carico di Brau Francesco Quirico Andrea.

Autore: Corte Costituzionale

Pubblicato in: Bollettino n.43 - Parte I e II del 04/10/2012

Data di Pubblicazione: 04/10/2012


 

Pubblicazione disposta dal Presidente della Corte Costituzionale a norma dell'art. 25 della Legge 11 marzo 1953 n. 87

 

N.205 Reg. ordinanze 2012

Ordinanza dell'8 febbraio 2012 emessa dal Tribunale di Oristano nel procedimento penale a carico di Brau Francesco Quirico Andrea

 

N. 1826/08 Registro notizie di reato mod. 21

N. 315/10 mod. 16

 

Tribunale di Oristano

 

Ordinanza di trasmissione degli atti

alla Corte Costituzionale

 

II giudice monocratico, dott Modestino Villani,

letti gli atti del procedimento penale sopra indicato iscritto nei confronti di BRAU Francesco Quirico Andrea, nato a Sassari il 22 marzo 1960

Imputato in relazione:

a) alla contravvenzione p. e p. dagli artt. 44, lett. c), in relazione all'art. 30, del d. P.R n. 380 del 2001 e all'art. 17 della l. n. 23 del 1985 della regione Sardegna, perché, nella sua qualità di legale rappresentante della soc. coop. LA PEONIA, eseguiva una lottizzazione abusiva a scopo edificatorio del terreno di circa 2700 mq., sito in zona F del piano urbanistico comunale, località "S'Ena Arrubia", e identificato nel catasto al foglio 5, mappale 2 parte, con conseguente trasformazione urbanistica ed edilizia del terreno stesso, collocando un chiosco prefabbricato e 26 unità abitative pure prefabbricate, aventi dimensioni variabili da m. 6,90 a m. 8,58 di lunghezza, da m. 2,60 a m, 2,95 di larghezza e da m. 2,20 a m. 2,55 di altezza, alcune dotate di veranda in struttura tubolare e tutte collegate a opere di urbanizzazione primaria, consistenti nelle reti idrica, elettrica e fognaria, effettuate allo scopo;

b) della contravvenzione p. e p. dall'art 44, lett. c), del d. P. R n. 380 del 2001, in relazione all'art 3 della legge della regione Sardegna n. 23 del 1985 e succ. mod., perché, nella sua qualità di legale rappresentante della soc. coop. LA PEONIA e in assenza della prescritta concessione edilizia, in zona sottoposta a vincolo paesaggistico con decreto 6 aprile 1990 n. TPUC/21 dell'assessore della pubblica istruzione, beni culturali, informazione, spettacolo e sport, e inoltre tutelata per legge poiché compresa in una fascia di trecento metri dalla linea di battigia e coperta da bosco, effettuava le opere di urbanizzazione primaria e collocava il chiosco e le unità abitative prefabbricate indicate alla precedente lett. a); c) della contravvenzione p. e p. dall'art. 734 c.p. perché, nella sua qualità di legale rappresentante della soc. coop. LA PEONIA, collocando i manufatti descritti nella precedente lett. a), distruggeva e comunque alterava le bellezze naturali di luoghi soggetti a speciale protezione dell'autorità, scarsamente interessati, nel loro complesso, da rilevanti processi di antropizzazione e caratterizzati da eccezionali elementi paesaggistici, naturalistici e geomorfologici, fra i quali spiccano la pineta di pini domestici e eucalipti e Io stagno di "S'Ena Arrubia".

In Arborea, nel mese di luglio 2008,

OSSERVA

all'esito dell'istruttoria dibattimentale il pubblico ministero ha prospettato l'illegittimità costituzionale dell'art.20 della legge regionale 8 novembre 2011 n. 21 della regione autonoma Sardegna, nella parte in cui sostituisce l'articolo 6 comma 4 bis della legge 14 maggio 1984 n. 22 a sua volta introdotto da legge regionale 7 agosto 2009 n. 3.

Le considerazioni svolte dal pubblico ministero sono assolutamente condivisibili ad avviso di questo giudice e dimostrano che l'intento del legislatore della regione Sardegna di perseverare nel tentativo di anteporre esigenze di tipo economico alla tutela dell'ambiente ed alla corretta programmazione degli interventi edilizi sul territorio urtano inesorabilmente con i principi dell'ordinamento giuridico e con le norme fondamentali delle riforme economico sociali della Repubblica quali quelli contenuti nel d.p.r. 380/2001 intaccando la potestà legislativa esclusiva dello Stato in materia penale. Di conseguenza non appare manifestamente infondata la questione di costituzionalità della norma regionale in relazione agli articoli 25 comma 2 e 117 comma 2 lettera L) della Costituzione nonché in relazione all'articolo 3 della costituzione ed all'articolo 3 comma 1 dello statuto speciale della regione Sardegna. Il preciso dettagliato iter argomentativo del pubblico ministero può essere integralmente trasfuso nella presente ordinanza muovendo proprio dall'esame testuale della norma che viene sottoposta al vaglio del Giudice delle Leggi;

«1 (1 Da tale virgolettatura si riporta integralmente quanto sostenuto dal pubblico ministero nella nota allegata al fascicolo dibattimentale con la quale era stata sollevata analoga questione di costituzionalità in altro giudizio.) Tale articolo, la cui rubrica s'intitola "Modifiche alle norme sulla classificazione delle aziende ricettive", stabilisce:

      1. Alla legge regionale 14 maggio 1984, n. 22 (Norme per la classificazione delle aziende ricettive), il comma 4 bis dell'articolo 6, introdotto dalla legge regionale 7 agosto 2009, n. 3 (Disposizioni urgenti nei settori economico e sociale) è sostituito dal seguente:

        "4 bis. Fatto salvo quanto previsto nel presente articolo, nelle aziende ricettive all'area aperta regolarmente autorizzate e nei limiti della ricettività autorizzata, gli allestimenti mobili di pernottamento, quali tende, roulotte, caravan, mobil-home, maxicaravan o case mobili e pertinenze ed accessori funzionali all'esercizio dell'attività, sono diretti a soddisfare esigenze di carattere turistico meramente temporanee e, anche se collocati in via continuativa, non costituiscono attività rilevante a fini urbanistici, edilizi e paesaggistici. A tal fine tali allestimenti devono:

        a) conservare i meccanismi di rotazione in funzione;

        b) non possedere alcun collegamento di natura permanente al terreno e gli allacciamenti alle reti tecnologiche, gli accessori e le pertinenze devono essere rimovibili in ogni momento.”

        E' opportuno, per una migliore lettura della norma, dar conto anche della precedente formulazione dell'art. 6, comma 4 bis, della legge regionale n. 22 del 1984, inserito da quella in data 7 agosto 2009, n. 3, sempre della regione Sardegna, il quale, testualmente, recitava:

"4 bis. Nei campeggi non è richiesto il titolo abilitativo edilizio per gli allestimenti mobili di pernottamento che conservano i meccanismi di rotazione in funzione, non sono collegati permanentemente al terreno e i cui allacciamenti alla rete idrica, elettrica e fognaria sono amovibili in qualsiasi momento."

Quest'ultima disposizione era stata introdotta a pochi giorni di distanza dall'approvazione, da parte del legislatore statale, della legge 23 luglio 2009, n. 99 (Disposizioni per lo sviluppo e l'internazionalizzazione delle imprese nonché in materia di energia) il cui art, 3, comma 9, pure si stima utile trascrivere:

"3. Al fine di garantire migliori condizioni di competitività sul mercato internazionale e dell'offerta di servizi turistici, nelle strutture turistico-ricettive all'aperto, le installazioni e i rimessaggi dei mezzi mobili di pernottamento, anche se collocati permanentemente, per l'esercizio dell'attività, entro il perimetro delle strutture turistico-ricettive regolarmente autorizzate, purché ottemperino alle specifiche condizioni strutturali e di mobilità stabilite dagli ordinamenti regionali, non costituiscono in alcun caso attività rilevanti ai fini urbanistici, edilizi e paesaggistici."

Peraltro, con sentenza n. 278 del 2010, la Corte costituzionale, su ricorso della regione Lazio, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale di tale norma non essendosi la stessa limitata a prevedere soltanto criteri e obiettivi ma avendo introdotto una disciplina "dettagliata e specifica che non lascia alcuno spazio al legislatore regionale" con conseguente superamento dell'ambito di competenza che, in materia di governo del territorio, è imposto al legislatore statale dall'art. 117, 3° comma, della Costituzione.

Ai fini che qui interessano, è il caso di precisare che la Corte costituzionale ha individuato gli aspetti di dettaglio della norma dichiarata incostituzionale nella circostanza che si trattava di una disciplina concernente specifiche tipologie d'interventi edilizi e applicabile alle sole strutture turistico-ricettive all'aperto. Limitatamente a tali ambiti, come del resto ha rilevato la stessa Corte costituzionale, la disposizione in esame costituisce una deroga a quella, posta dall'art. 3, 1° comma, punto e.5), del d. P. R. n. 380 del 2001, secondo la quale rientra nell'ambito degli interventi di nuova costruzione:

"l'installazione di manufatti leggeri anche prefabbricati, e di strutture di qualsiasi genere, quali roulottes, campers, case mobili, imbarcazioni, che siano utilizzati come abitazioni, ambienti di lavoro, oppure come depositi, magazzini e simili, e che non siano diretti a soddisfare esigenze meramente temporanee;". Trattandosi, come si è ora detto, di un intervento che appartiene alla più ampia categoria di quelli di nuova costruzione, anche l'installazione dei manufatti indicati è subordinata al preventivo rilascio del permesso di costruire o, in alternativa e alla presenza di determinati presupposti, alla denuncia d'inizio attività, ai sensi, rispettivamente, degli artt. 10, 1° comma, e 22, 3° comma, del citato d. P. R. n. 380.

La Corte costituzionale ha osservato, sulla scia di un risalente e pacifico orientamento giurisprudenziale dei giudici sia ordinari sia amministrativi, che il legislatore ha recepito con la disposizione ora riportata, che: "In sostanza, la normativa statale sancisce il principio per cui ogni trasformazione permanente del territorio necessita di titolo abilitativi e ciò anche ove si tratti di strutture mobili allorché esse non abbiano carattere precario.

Il discrimine tra necessità o meno di titolo abilitativo è dato dal duplice elemento: precarietà oggettiva dell'intervento, in base alle tipologie dei materiali utilizzati e precarietà funzionale, in quanto caratterizzata dalla temporaneità dello stesso."

Nelle ipotesi considerate, invece: "(...) la disposizione impugnata esclude la rilevanza di tali attività a fini urbanistici ed edilizi (oltre che paesaggistici), e, conseguentemente, la necessità di conseguire apposito titolo abilitativo per la loro realizzazione, sulla base del mero dato oggettivo, cioè della precarietà del manufatto, dovendo trattarsi di «mezzi mobili» secondo quanto stabilito dagli ordinamenti regionali.

Tale elemento strutturale è considerato a priori di per sé sufficiente, ed anzi è espressamente esclusa la rilevanza del dato temporale e funzionale dell'opera, in quanto si prevede esplicitamente che possa trattarsi anche di opere permanenti, sia pure connesse all'esercizio dell'attività turistico-ricettiva."

Per la verità, secondo il costante orientamento giurisprudenziale al quale si è sopra accennato, ciò che è essenziale per stabilire se un manufatto sia precario o meno, con la facoltà di erigerlo senza alcun titolo, nel primo caso, o con l'obbligo di ottenere quest'ultimo, nel secondo caso, non è la tipologia dei materiali impiegati o le modalità costruttive, dal momento che un'opera edilizia può ben essere diretta a soddisfare esigenze temporanee anche se stabilmente infissa al suolo (l'esempio ricorrente è quello della struttura di cantiere adibita a ricovero dei macchinari e degli attrezzi, che può anche essere edificata in muratura). Decisiva, invece, è la circostanza che la costruzione, senza che possa attribuirsi alcun rilievo alle intenzioni manifestate dal responsabile, presenti oggettivamente caratteristiche tali da potersi desumere che essa sia stata eseguita per assicurare esigenze cronologicamente circoscritte o, al contrario, destinate a permanere nel tempo, anche in modo non continuo ma ricorrente (e in tale ultimo caso si parla di opere stagionali per le quali vige, comunque, l'obbligo di munirsi di titolo abilitativo).

E' questa la ragione per cui, come esattamente ha affermato la Corte costituzionale nella sentenza in commento, qualsiasi trasformazione permanente del territorio è subordinata al conseguimento del prescritto titolo edilizio anche qualora l'opera da realizzare, pur se non saldamente infissa al suolo e prontamente rimovibile, debba essere destinata a un'utilizzazione non temporanea, come fra l'altro dispone l'art. 3, 1° comma, punto e5.) del d. P. R. n. 380 del 2001 per specifiche tipologie d' installazioni.

Invece, la disposizione statale dichiarata incostituzionale, sia pure, come si è visto, in ambiti e per attività determinate, attribuiva rilievo alle caratteristiche di pronta rimozione di tali installazioni, al contempo e contraddittoriamente consentendo che le stesse potessero rimanere indefinitamente sull'area della loro collocazione senza che ciò fosse rilevante sia sotto il profilo urbanistico e edilizio sia sotto quello paesaggistico.

Anche l'art. 6, comma 4 bis, della legge della regione Sardegna n. 22 del 1984, non solo nella sua precedente formulazione, introdotta dalla già citata legge regionale n. 3 del 2009 ma anche in quella attuale dovuta alla legge regionale n. 21 del 2011, prevede l'installazione dei manufatti appartenenti alle tipologie elencate nel testo della norma, nelle sole strutture turistico ricettive all'aria aperta regolarmente autorizzate e nei limiti della ricettività autorizzata, purché si tratti di manufatti destinati a soddisfare esigenze turistiche di carattere temporaneo e sempre che le strutture in questione non siano permanentemente collegate al suolo, conservino i meccanismi di rotazione in funzione e i loro accessori e pertinenze, oltre che gli allacciamenti agli impianti tecnologici, possano essere prontamente rimovibili.

In casi del genere, la vigente disposizione autorizza l'installazione dei manufatti di cui si tratta in assenza di qualsiasi titolo abilitativo, ritenendo la loro irrilevanza sotto il profilo urbanistico, edilizio e paesaggistico, anche in caso di sistemazione degli stessi in via permanente.

Peraltro, sotto il vigore della precedente disposizione, il tribunale di Oristano, con alcune sentenze e ordinanze, per le quali si veda, per tutte, l'ordinanza in data 15 gennaio 2010 pronunciata in sede di riesame del decreto di sequestro preventivo di alcune case mobili installate in un camping, in assenza di concessione edilizia e di autorizzazione paesaggistica, aveva stabilito, vigente anche la legge statale n. 99 del 2009, che tra i mezzi mobili di pernottamento contemplati da quest'ultima e gli allestimenti mobili di pernottamento previsti dal citato art. 6, comma 4 bis, della legge regionale n. 22 del 1984, non potessero farsi rientrare le c. d. case mobili.

Secondo il tribunale, infatti, anche alla luce della decisione della Comunità europea del 14 aprile 2005, che era stata richiamata dal ricorrente: "(..,) va osservato che la caratteristica precipua del mezzo mobile di pernottamento è da rinvenirsi nella sua naturale destinazione ad offrire all'utilizzatore la possibilità di abbinare la facilità di spostamento - di solito, ma non necessariamente con finalità turistiche - con la costante disponibilità di un alloggio nel quale pernottare. Pur non volendosi intendere pernottamento nel senso stretto di trascorrere la notte, ed anche a voler ampliare il concetto fino a ricomprendervi strutture che consentano un alloggio più comodo di una roulotte e più affine, anche per la conformazione esterna ad un' abitazione, i beni oggetto del sequestro non potrebbero rientrare nel concetto di "mezzi mobili". Le otto case mobili hanno invero dimensione di circa 24 mq (8x3) che lungi dal renderle idonee a svolgere quella funzione di agevole movimento che invece caratterizza tende, roulotte e camper, le assimila piuttosto a strutture di pernottamento quali ad esempio i bungalow."

Per il tribunale, la stessa conformazione delle strutture considerate ne escludeva, all'evidenza: "(...) l'utilizzabilità anche in astratto quale mezzo mobile di pernottamento a nulla rilevando che le stesse siano fornite di ruote. Tali ruote infatti come si evince anche dalla documentazione fotografica appaiono di fatto un elemento secondario nella struttura complessiva e sembrano funzionalmente destinate non all'abituale seppur astratta, mobilità quanto piuttosto a rendere più agevole l'amovibilità di ciascun bene."

II tribunale, pertanto, concludeva rigettando la richiesta di riesame e confermando il decreto di sequestro preventivo delle otto case mobili disposto dal gip, perché: "(...) è evidente che i beni sequestrati siano privi "a monte" di meccanismi di rotazione" da poter mantenere in funzione, in quanto anche per la legge regionale i suddetti meccanismi dovrebbero essere quelli che rendono il bene idoneo ad una agevole e naturale destinazione alla mobilità e alla circolazione e non semplicemente quelli che ne facilitino l'eventuale rimozione o amovibilità. "

Ad avviso del sottoscritto pubblico ministero, la nuova disposizione introdotta in sostituzione del precedente art. 6, comma 4 bis, della legge regionale n.22 del 1984, non può più essere interpretata nei termini, allora condivisibili, di cui alla suddetta ordinanza.

Anche senza considerare la voluntas legis, inequivocabilmente rivolta ad ampliare la categoria dei manufatti liberamente installabili nelle strutture turistico-ricettive all'aria aperta proprio in seguilo al restrittivo orientamento seguito in Sardegna non solo dal tribunale di Oristano e che ha comportato numerosi sequestri di case mobili in diversi campeggi situati nelle fasce costiere, il testo della norma non sembra lasciare spazio in proposito. La specifica indicazione fra le tende, le roulotte, i caravan e i maxicaravan, anche delle case mobili e dei mobil-home, che ne costituiscono il corrispettivo termine inglese, rende applicabile la disposizione, al ricorrere dei presupposti in essa previsti, anche a tali manufatti. Questi ultimi, è il caso di osservare per completezza, sono effettivamente muniti di ruote ma, come esattamente osservato dal tribunale di Oristano, si tratta di meccanismi che non consentono in alcun modo il traino degli stessi su strada, per cui il loro trasporto può avvenire soltanto collocandoli sopra un veicolo idoneo a portarli a destinazione. In realtà, le ruote in questione costituiscono nient'altro che un espediente escogitato dai costruttori per attribuire alle case mobili caratteristiche di precarietà e di pronta amovibilità e poterle così pubblicizzare per la vendita come installazioni la cui collocazione non richiede né il titolo edilizio né quello paesaggistico. Tuttavia, una volta appoggiate al suolo, in posizione leggermente sopraelevata per impedire che le ruote tocchino il terreno provocando leggere ma fastidiose oscillazioni per chi le abita, simili a quelle di un'imbarcazione, le strutture di cui si tratta sono destinate a non essere più rimosse, se non in casi eccezionali, e in nulla differiscono da una normale casa prefabbricata.

A ogni modo, anche la Corte costituzionale, nella citata sentenza n.278 del 2010 con la quale è stata dichiarata l'illegittimità dell'art. 3, comma 9, della legge n. 99 del 2009, ha mostrato di ritenere pacificamente comprese, fra i mezzi mobili di pernottamento e i relativi rimessaggi previsti dalla norma, anche le case mobili che, del resto, sono espressamente indicate, come si è appena detto, nell'art. 6, comma 4 bis, della legge regionale n.22 del 1984, nella sua attuale formulazione.

Tanto premesso, quest'ultima disposizione, a parere dello scrivente, suscita dubbi di legittimità costituzionale per violazione degli artt. 3, 25, 2° comma, e 117, 2° comma, lett. l) ed s) della Costituzione e dell'art. 3, 1° comma, della legge costituzionale 26 febbraio 1948, n 3 - Statuto speciale per la Sardegna.

Al riguardo, va preso in considerazione, per primo, quello che, nel caso di specie, sembra essere il profilo d'illegittimità costituzionale più evidente e che consiste nella violazione del principio che riserva al solo legislatore statale la potestà di emanare norme di natura penale. In proposito, è doveroso richiamare l'art. 117, 2° comma, lett. l) della Costituzione, nel testo introdotto dalla legge cost. n. 3 del 2001 che ha riformato il titolo V della Carta fondamentale, il quale ha espressamente attribuito, fra l'altro, la materia dell'ordinamento penale alla legislazione esclusiva dello Stato. In tal modo è stato formalizzato, come riconosciuto dalla dottrina pressoché unanime e dalla stessa Corte costituzionale, quell'orientamento, del tutto prevalente, che ha sempre assegnato al termine "legge", contenuto nell'art. 25, 2° comma, della Costituzione, il significato restrittivo di "atto normativo emanato dal Parlamento ai sensi degli artt. 70-74 Cost.", comprendendo in esso anche i decreti-legge e le leggi delegate ma non le leggi regionali.

Si legge, così, nella sentenza n. 185 del 24 giugno 2004 della Corte costituzionale che; "Nella giurisprudenza di questa Corte era, infatti, ricorrente l'affermazione secondo cui la sola fonte del potere punitivo è la legge statale e le Regioni non dispongono di alcuna competenza che le abiliti a introdurre, rimuovere o variare con proprie leggi le pene previste dalle leggi dello Stato in tale materia; non possono in particolare considerare lecita un'attività penalmente sanzionata nell'ordinamento nazionale (...) Dalla riforma costituzionale del 2001, questo orientamento giurisprudenziale ha ricevuto una esplicita conferma (...)."

E' bene precisare che la competenza statale in tema di norme penali può esercitarsi in relazione a ogni materia, anche se appartenente a quelle rientranti nella sfera esclusiva o concorrente delle regioni e riguarda sia quelle a statuto ordinario sia quelle a statuto speciale. E' appena il caso di aggiungere, inoltre, che il divieto per le regioni di emanare norme che incidono sull'ordinamento penale abbraccia due distinti aspetti: è innanzitutto inibito a tali enti territoriali (salvo alcune limitate eccezioni sulle quali si è pronunciata anche la Corte costituzionale ma che non rilevano in questa sede) di introdurre nuove fattispecie di reato corredate delle relative sanzioni, evenienza questa peraltro raramente avvenuta; in secondo luogo, le regioni non possono intervenire, con proprie leggi, su condotte penalmente previste dal legislatore statale, modificando, eliminando o introducendo presupposti, elementi normativi, cause di giustificazione o di estinzione dei reati, in modo da ampliare o ridurre l'ambito applicativo degli illeciti disciplinati da norme statali. Ciò è consentito solo in limitati casi e precisamente quando sia il legislatore nazionale, come avviene, talora, per le c. d. norme penali in bianco, a strutturare la fattispecie in termini tali da richiedere, per la sua concreta applicazione o per la specifica determinazione di cause di non punibilità o di estinzione, un'attività integrativa che, peraltro, non è esclusiva del legislatore regionale ma, secondo i casi, può essere demandata anche a regolamenti o a singoli provvedimenti dell'autorità amministrativa.

Sul punto, ancora una volta è opportuno riportare quanto affermato dalla Corte costituzionale nella sentenza 25 ottobre 1989, n. 487, laddove si rileva che gli elementi extrapenali che concorrono a determinare una fattispecie di reato, incidendo sulla sua estensione in termini ampliativi o restrittivi, sono consentiti soltanto quando: "dalle leggi statali si subordinino effetti incriminatori o decriminalizzanti ad atti amministrativi (o legislativi) regionali: in tal caso, nel determinare i presupposti dai quali sono condizionati gli effetti penali (e, conseguentemente, nel modificare i presupposti stessi) le leggi regionali indirettamente e per determinazione delle stesse leggi statali, incidono su fattispecie penali previste da leggi statali."

Venendo all'esame della specifica questione, si rileva, innanzitutto, che con la disposizione di cui si chiede l'impugnazione per illegittimità costituzionale il legislatore regionale, così come aveva fatto quello statale con l'art. 3. comma 9, della legge 23 luglio 2009, n. 99, poi dichiarato incostituzionale per i motivi già illustrati, ha introdotto una deroga alla norma, sopra riportata, prevista dall'art. 3, 1° comma, punto e.5) del d. P. R. n.380 del 2001.

In sostanza, è come se il predetto legislatore avesse aggiunto a quest'ultima disposizione, che qualifica intervento di nuova costruzione la collocazione dei manufatti e delle strutture ivi indicati qualora gli stessi non siano destinati a soddisfare esigenze di carattere temporaneo, un ulteriore periodo il quale esclude che l'apposizione sul suolo dei medesimi manufatti sia rilevante ai fini edilizi e urbanistici (oltre che paesaggistici), se eseguita, alla presenza dei presupposti già considerati, in strutture turistico-ricettive all'aria aperta, e, di conseguenza, la sottrae dal novero degli interventi di nuova costruzione.

In altre parole, la disposizione in esame consente la collocazione anche a tempo indeterminato dei manufatti in questione all'interno di specifici contesti, senza alcun titolo abilitativo mentre, com'è noto, gli interventi di nuova costruzione, definiti dall'art. 3, 1° comma, punto e), del d. P. R. n. 380 del 2001 come: "quelli di trasformazione edilizia e urbanistica del territorio non rientranti nelle categorie definite alle lettere precedenti." sono subordinati, ai sensi del successivo art. 10, 1° comma, a permesso di costruire (in Sardegna, alla concessione) o, in alternativa e ai sensi dell'art. 22, commi 3° e 4°, dello stesso d. P. R., alla denuncia d'inizio attività (o, sempre in Sardegna, alla DUAP, dichiarazione unica di attività produttiva).

Nel caso in cui manchi l'uno o l'altro dei titoli abilitativi oppure l'intervento di nuova costruzione sia eseguito in difformità rispetto a essi, il d. P. R. n.380 prevede per i responsabili sanzioni penali e amministrative, rispettivamente contemplate dall'art. 44 e dagli artt. 31 e segg.

Ebbene, la norma impugnata, per quel che si è detto, sottrae a ogni conseguenza di carattere penale o amministrativo l'installazione delle strutture di cui si tratta, alla presenza dei presupposti in essa stabiliti, e, in particolare, non consente, in primo luogo, di contestare la contravvenzione prevista dall'art. 44, lett. a) del d. P. R. n. 380 del 2001, nell'ipotesi in cui l'installazione avvenga in contrasto con le norme, le prescrizioni e le modalità esecutive previste dai regolamenti edilizi e dagli strumenti urbanistici. Per la stessa ragione, poi, vale a dire perché si tratta d'interventi che il legislatore regionale ha ritenuto privi di rilevanza a fini urbanistici e edilizi e, dunque, liberamente eseguibili, neppure può venire in considerazione la predetta contravvenzione o quelle di cui alle successive lett. b) e c), secondo periodo, dell'art. 44, che presuppongono l'esecuzione di lavori in assenza, in totale o in parziale difformità oppure in variazione essenziale rispetto a titoli edilizi che non sono richiesti nelle ipotesi in questione.

Non basta. La disposizione regionale pone come unico limite al numero dei manufatti liberamente installabili quello della ricettività autorizzata delle singole strutture turistico-ricettive all'interno delle quali possono essere collocati detti manufatti.

Questi ultimi, pertanto, possono essere collocati, come recenti vicende hanno eloquentemente dimostrato, in numero elevato e, più esattamente, anche nell'ordine di diverse decine. Inoltre, la norma autorizza il loro allacciamento agli impianti tecnologici purché il collegamento possa essere rimosso in ogni momento.

Di conseguenza, ricorrendo determinate condizioni, vale a dire il numero dei prefabbricati e delle altre strutture a essi connesse, e cioè accessori, pertinenze e impianti tecnologici, la quantità di persone ospitate, nonché le caratteristiche della zona nella quale sorge la struttura turistico-ricettiva, non urbanizzata o parzialmente urbanizzata e, quindi, l'esigenza di eseguire o incrementare opere di urbanizzazione primaria e secondaria, l'insediamento risultante dalla collocazione dei manufatti in questione può integrare gli estremi di una lottizzazione non autorizzata.

In tal senso si è pronunciata una recente sentenza della Cassazione (Cass., sez. III, 17 dicembre 2007, Spaccialbelli) che segue altra, più risalente (Cass., sez. III, 29 aprile-27 ottobre 1983, Angiulli) la quale pure ha ritenuto la sussistenza del reato di lottizzazione in considerazione delle dimensioni di un campeggio sorto in zona agricola, sia pure senza autorizzazione, del numero dei suoi ospiti e della presenza d'infrastrutture destinate a servizi, che avevano comportato la creazione di un insediamento permanente nell'area in questione.

La prima e più recente delle decisioni citate, invece, pronunciandosi in sede di ricorso contro l'ordinanza del tribunale emessa quale giudice del riesame, ha confermato il decreto di sequestro preventivo disposto dal gip di un campeggio regolarmente autorizzato, ravvisando il fumus del reato di lottizzazione abusiva nel fatto di avere eseguito: "(...) opere edilizie non autorizzate e roulotte posizionate a terra non più agevolmente trasportabili e quindi ormai trasformate in vere unità abitative dotate di strutture permanenti (così da comportare) una immutazione radicale dell'originaria struttura del campeggio in uno stabile insediamento abitativo. "

Anche con riguardo al fatto per cui si procede è stato contestato il reato di lottizzazione abusiva, oltre a quello previsto dallo stesso art. 44, lett. c) del d. P. R. n. 380 del 2001, per avere eseguito opere in assenza della prescritta concessione edilizia e in zona sottoposta a vincolo paesaggistico, conformemente, del resto, ad altre vicende precedenti che pure hanno superato il vaglio del tribunale in sede di riesame e, in un caso, anche del giudice del dibattimento.

Più precisamente, si tratta dell'installazione, all'interno di un campeggio regolarmente autorizzato, di undici2 (2Nel presente procedimento le unità abitative sono 26) unità abitative prefabbricate, del genere case mobili, tutte collegate a opere di urbanizzazione primaria, consistenti nelle reti idrica, elettrica e fognaria realizzate allo scopo.

In seguito alla norma regionale sospettata d'incostituzionalità, anche a fronte dell'installazione duratura, all'interno di strutture turistico-ricettive all'aria aperta, di numerose strutture (roulotte, camper, maxicaravan, case mobili) e del conseguente fabbisogno di opere d'urbanizzazione primaria in un'area non urbanizzata o parzialmente urbanizzata, in assenza dell'autorizzazione comunale, non sarà ravvisabile la contravvenzione di lottizzazione abusiva; di conseguenza e fra l'altro, non potrà più disporsi, da parte del giudice penale, la confisca dei terreni e delle opere abusivamente costruite e, da parte dell'autorità comunale, l'acquisizione di diritto dei primi e la demolizione delle seconde.

Ad avviso di questo pubblico ministero, non vale osservare che la sistemazione di tali strutture è pur sempre consentita dalla disposizione regionale soltanto alla presenza di aziende regolarmente autorizzate e nei limiti della ricettività pure autorizzata. Infatti, l'autorizzazione rilasciata per l'apertura e la gestione di una struttura turistico-ricettiva del genere considerato si fonda su presupposti e requisiti che non hanno nulla a che vedere con quelli, che attengono alla corretta pianificazione urbanistica ed edilizia del territorio, sui quali si fonda la diversa autorizzazione, rilasciata dal consiglio comunale e accompagnata dalla necessaria convenzione, per eseguire interventi di lottizzazione; né può costituire un limite al numero dei manufatti e delle strutture collocabili, quello della capacità ricettiva la quale, in considerazione delle dimensioni dall'azienda, può essere anche molto elevata e, comunque, anche in quelle di dimensioni inferiori, mai trascurabile.

Anche sotto questo profilo, quindi, vale a dire restringendo l'ambito di applicazione della contravvenzione di lottizzazione abusiva, la norma di cui si tratta sembra comportare una non consentita invasione, da parte del legislatore della regione Sardegna, della competenza nella materia dell'ordinamento penale, riservata in via esclusiva al legislatore statale dall'art, 117, 2° comma, lett. l) della Costituzione.

Peraltro, restando sul terreno urbanistico-edilizio, potrebbe osservarsi che con la sentenza più volte citata, con cui la Corte costituzionale ha dichiarato l'illegittimità dell'art. 3, comma 9, della legge 23 luglio 2009, n, 99, perché, in quanto norma di dettaglio, lo stesso era invasivo della competenza concorrente delle regioni a statuto ordinario in materia di governo del territorio, si è implicitamente e all'opposto affermata la liceità di interventi da parte delle regioni in merito allo specifico oggetto disciplinato. Anzi, avendo la regione autonoma della Sardegna, ai sensi del suo Statuto speciale (legge costituzionale n. 3 del 26 febbraio 1948), potestà legislativa esclusiva nella materia dell'edilizia e dell'urbanistica, tanto più dovrebbe valere, per questo ente territoriale, una simile conclusione.

Certamente spetta alle regioni, tanto più a quelle a Statuto speciale, il potere di intervenire per disciplinare numerosi aspetti della materia in questione e di quella, più vasta, nella quale essa è compresa, del governo del territorio. Lo stesso d. P. R. n. 380 del 2001, d'altra parte, contiene numerose norme che riconoscono alle regioni ampi spazi d'intervento (si vedano, a titolo d'esempio, l'art. 10, 2° e 3° comma, e l'art. 22,4° comma).

Addirittura, l'art. 6, 6° comma, lett. a), sempre del d. P. R. n. 380 del 2001, nella sua attuale formulazione, riconosce la possibilità, per le regioni a statuto ordinario (e, quindi, a maggior ragione, ciò è lecito per quelle a statuto speciale) di estendere la disciplina per l'attività edilizia libera contemplata dal medesimo art 6: "a interventi edilizi ulteriori rispetto a quelli previsti dai commi 1 e 2 ", ed è proprio di tale facoltà, si potrebbe sostenere, che si è avvalsa la regione Sardegna emanando la disposizione di cui si discute.

Tuttavia, se nelle materie di legislazione concorrente, le regioni a statuto ordinario, in virtù dell'art.117, 3° comma, ultimo periodo, sono tenute a rispettare i principi fondamentali, la cui determinazione è riservata alla legislazione dello Stato, le regioni a statuto speciale, anche nelle materie di loro esclusiva competenza devono osservare, fra l'altro, i principi dell'ordinamento giuridico e le norme fondamentali delle riforme economico-sociale della Repubblica (cfr., ad esempio, l'art. 3 della già citata legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 3 - Statuto speciale per la Sardegna. In particolare, le norme fondamentali di riforma economico-sociale della Repubblica sono state così definite dalla Corte costituzionale (cfr. la sentenza 15 novembre 1988, n. 1034): "a) si deve trattare di norme legislative dello Stato che -in considerazione del contenuto, della motivazione politico-sociale degli scopi che si prefiggono - presentino un carattere riformatore, diretto a incidere significativamente nel tessuto normativo dell'ordinamento giuridico o nella vita della nostra comunità giuridica nazionale; b) le stesse leggi, tenuto conto della tavola di valori costituzionali, devono avere ad oggetto settori o beni della vita economico-sociale di rilevante importanza, quali, ad esempio, 'la soddisfazione di un bisogno primario o fondamentale dei cittadini' o 'un essenziale settore economico del paese'; c) si deve trattare inoltre di 'norme fondamentali ', vale a dire della posizione di norme-principio o della disciplina di istituti giuridici - nonché delle norme legate con queste da un rapporto di coessenzialità o di necessaria integrazione - che rispondano complessivamente ad un interesse unitario ed esigano, pertanto, un'attuazione su tutto il territorio nazionale e che, in ogni caso, lascino alle Regioni, nelle materie di propria competenza, uno spazio normativo sufficiente, per adattare alle proprie peculiarità locali i principi e gli Istituti introdotti dalle leggi nazionali di riforma."

Specialmente sulla scorta di quest'ultima indicazione, le disposizioni di rango legislativo contenute nel d. P. R. n. 380 del 2001 che individuano gli interventi di trasformazione urbanistica del territorio subordinandoli al conseguimento di un titolo edilizio (si tratti del permesso di costruire, della denuncia d'inizio attività e, ora, della SCIA, segnalazione certificata d'inizio attività) e il connesso sistema sanzionatorio, anche amministrativo, costituiscono, a parere di chi scrive, per le regioni a statuto ordinario, principi fondamentali dello Stato e, per quelle a statuto speciale, anche con competenza esclusiva in materia, norme fondamentali di riforma economico-sociale.

Ne consegue che esse possono essere modificate dalle regioni nei limiti consentiti e in quelli ricavabili dal sistema ma non stravolte in modo da intaccare quell'interesse unitario che esige, come rilevato dalla Corte costituzionale, la loro applicazione uniforme su tutto il territorio nazionale.

Così, alla stregua della richiamata disposizione contenuta nell'art. 6, 6° comma, del d. P. R. n. 380 del 2001, le regioni possono individuare altri interventi edilizi eseguibili liberamente in assenza di titolo abilitativo o mediante semplice comunicazione al comune, oppure possono modificare, specificare o integrare le definizioni degli interventi edilizi elencati nel precedente art. 3 (argomentando a contrario dall'ultimo comma di tale articolo), ma non al punto tale da innovare in termini essenziali l'impianto complessivo voluto dal legislatore che vuole che gli interventi più rilevanti, vale a dire quelli di trasformazione urbanistica del territorio, siano sottoposti a controllo, preventivo o successivo, da parte della competente autorità e presidiati, nei congrui casi, da sanzioni penali e amministrative.

Per completezza, è il caso di precisare che l'art, 1, 4° comma, della l. n. 131 del 2003, più volte menzionata, delegava il governo ad adottare entro un anno dalla data della sua entrata in vigore: "(...) uno o più decreti legislativi meramente ricognitivi dei principi fondamentali che si traggono dalle leggi vigenti, nelle materie previste dall'art. 117, terzo comma, della Costituzione, attenendosi ai principi della esclusività, adeguatezza, chiarezza, proporzionalità ed omogeneità." Nel successivo 6° comma, lett. b), poi, lo stesso articolo precisava che, nella predisposizione dei decreti legislativi delegati, il governo si sarebbe dovuto attenere, fra gli altri criteri direttivi, alla: "considerazione prioritaria, ai fini dell'individuazione dei principi fondamentali, delle disposizioni statali rilevanti per garantire l'unità giuridica ed economica, la tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, (...), nonché il rispetto dei principi generali in materia di procedimenti amministrativi e di atti concessori o autorizzatori."

Nessun decreto delegato è però stato adottato dal governo e, pertanto, nelle materie di legislazione concorrente, è necessario desumere i principi fondamentali di ciascuna di esse dalle leggi statali vigenti.

Per quanto concerne l'edilizia, l'art. 1 del d. P. R. n. 380 del 6 giugno 2001, Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia, stabilisce nel 1° comma che: "II presente testo unico contiene i principi fondamentali e generali e le disposizioni per la disciplina dell'attività edilizia." ma è pacifico che una simile enunciazione non abbia alcun valore vincolante poiché il testo unico contiene numerose norme di dettaglio che non sono certo espressione di principi fondamentali della materia. Lo dimostra, fra l'altro, la circostanza che molte delle sue disposizioni, e la stessa intitolazione del testo unico lo attesta, hanno rango regolamentare e sono dunque derogabili dalla normativa regionale.

Preso atto di una tale situazione, un'attenta dottrina che ha tentato di operare una ricognizione dei principi fondamentali del diritto urbanistico, desumendoli dal complesso della normativa vigente, fermo restando l'invalicabile limite fissato dalle disposizioni penali nei termini prima illustrati, ha osservato, a proposito dei titoli abilitativi: "(...) l'unico principio certo attiene al necessario assoggettamento a controllo preventivo degli interventi di trasformazione urbanisticamente rilevanti, per il rimanente la materia rientrando nella potestà legislativa delle Regioni, che ben potrebbero quindi attuare il principio anche con modalità originali."

E' significativo, del resto, che, nella sentenza n. 278 del 2010 con la quale, come si è più volte detto, la Corte costituzionale ha dichiarato illegittimo l'art. 3, comma 9, della legge n. 99 del 2010, la Corte richiama, come esempio di normazione secondaria intervenuta a disciplinare l'installazione di strutture mobili, alcune leggi regionali, quella della regione Toscana 3 gennaio 2005, n. 1, e quella della regione Lombardia 11 marzo 2005, n. 12, le quali, lungi dall'innovare o derogare ai principi fondamentali posti dal legislatore statale, ne ricalcano sostanzialmente la disposizione contenuta nell'art. 3 del d. P. R. n.380 del 2001, affermando la natura d'interventi di nuova costruzione delle installazioni in questione, se collocate in modo permanente.

Al contrario, sempre la Corte costituzionale, con la recente sentenza n. 309 del 2011 ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 27, 1° comma, lett. d) della ora richiamata legge della regione Lombardia n. 12 del 2005, con il quale si erano compresi, nel concetto di ristrutturazione edilizia consistente nella demolizione e ricostruzione di un edificio, anche quegli interventi modificativi della sagoma degli edifici preesistenti, la quale, invece, per la definizione di questa specifica ipotesi di ristrutturazione, è requisito essenziale richiesto dalla disposizione statale, che deve restare inalterato.

La Corte, nella circostanza, ha affermato che alle norme contenute nel d. P. R. n.380 del 2001 che definiscono le diverse tipologie d'interventi edilizi deve essere riconosciuta natura di principi fondamentali della materia perché su di esse si fonda la diversa disciplina, non solo dei titoli abilitativi e del relativo procedimento, ma anche il regime delle sanzioni amministrative e penali in caso di violazioni.

Proprio alla luce delle considerazioni svolte poc'anzi e delle conclusioni alle quali è pervenuta la Corte costituzionale nella sentenza in questione, sebbene la Sardegna sia regione a statuto speciale e abbia competenza esclusiva in materia di edilizia e urbanistica, è da ritenersi che i principi fondamentali ora indicati siano, a un tempo, anche norme fondamentali di riforma economico-sociale alla cui osservanza detta regione non può sottrarsi.

Non vale rilevare, del resto, che quest'ultima non ha modificato alcuna delle categorie d'interventi edilizi fornendo una diversa definizione delle medesime rispetto a quella dettata dal legislatore statale perché, se è vero che ciò non è stato fatto direttamente ed esplicitamente, non vi è dubbio che con la norma di cui si discute e come già si è osservato è stato ridotto l'ambito degli interventi di nuova costruzione escludendo che un'intera tipologia di essi potesse continuare a considerarsi tale all'interno dell'intero territorio regionale.

Con riferimento al caso di specie, in definitiva, nulla vietava alla regione Sardegna di intervenire con proprie norme per regolamentare la materia, disponendo anche in modo difforme dalla legislazione nazionale ma senza incidere sugli aspetti essenziali di quest'ultima.

E' quanto, per esempio, ha fatto la regione Sicilia che, con l'art, 5 della legge regionale 10 agosto 1985, n.37, come modificato dall'art. 6 della legge 15 maggio 1986, n.26, ha previsto tutta una serie d' interventi eseguibili con la sola autorizzazione e non con la concessione, fra cui " l'impianto di prefabbricati ad una sola elevazione non adibiti ad uso abitativo" purché in zone non sottoposte a vincolo paesaggistico.

La Corte costituzionale, con ordinanza n. 187 del 1997, ha dichiarato la manifesta infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale sollevate nei confronti della norma in questione, con riferimento agli artt. 25, 2° comma, e 3 della Costituzione, poiché la stessa: "(...) così come interpretata dalla giurisprudenza amministrativa e applicata nella prassi, sottopone al regime autorizzatorio soltanto le costruzioni prefabbricate di modeste dimensioni, tali da non alterare stabilmente l' assetto del territorio né determinare un nuovo carico urbanistico, senza venire in contrasto con i principi della legislazione dello Stato."

Si tratta di una conclusione alla quale, sulla scorta di quanto sino ad ora osservato e per quanto si dirà appresso, non sembra possibile pervenire a proposito della norma della regione Sardegna, atteso che la stessa consente la collocazione di manufatti che, per definizione, sono ad uso abitativo, non sono per tale ragione di ridotte dimensioni e, anzi, possono avere una superficie e una volumetria non trascurabili, possono essere installati in numero elevato e, infine, sono destinati a insistere, prevalentemente se non esclusivamente, in zone di elevato valore paesaggistico senza necessità della relativa autorizzazione.

Ciò premesso, sotto il profilo strettamente urbanistico-edilizio, sussiste, ad avviso del sottoscritto pubblico ministero, la violazione dell'art. 25, 2° comma, e 117, 2° comma, lett. l) della Costituzione, perché la norma di cui si tratta ha invaso la competenza in materia penale riservata esclusivamente allo Stato, comportando un'indebita restrizione dell'ambito applicativo di tutte e tre le fattispecie di reato p. e p. dall'art. 44, 1° comma, Iett. a), b) e c) del d. P. R. 6 giugno 2001, n.380.

Sembra, poi, violato anche l' art. 3 della Costituzione poiché in Sardegna nessun trattamento sanzionatorio, penale o amministrativo, è previsto, in caso d' installazione dei manufatti e delle strutture previsti dalla disposizione, se collocati nelle aziende di cui si è detto, a differenza di quanto avviene, non solo nella stessa regione al di fuori delle aziende in questione, ma anche nel resto del territorio nazionale.

Da ultimo, se è fondato il rilievo che le norme del d. P. R. che stabiliscono incisive conseguenze di natura amministrativa per gli illeciti edilizi (acquisizione di diritto al patrimonio comunale delle aree e degli immobili, demolizione dei fabbricati abusivi, confisca dei terreni lottizzati e delle opere eseguite sugli stessi) devono essere considerate norme fondamentali di riforma economico-sociale o principi dell'ordinamento giuridico della Repubblica (pure menzionati nella disposizione appresso indicata), la sottrazione totale di un'intera categoria di abusi a tali conseguenze contrasta anche con il citato art. 3, 1° comma, dello Statuto speciale per la Sardegna.».

Ritenuta per le ragioni sopra riportate la non manifesta infondatezza della questione di costituzionalità prospettata dal pubblico ministero va osservato quanto alla rilevanza della questione che, come evidenziato dal pubblico ministero, i reati contestati al Brau sono stati commessi prima dell'entrata in vigore della norma regionale di cui si discute e che non si è in presenza di un fenomeno di successione di leggi penali nel tempo riconducibile all'art. 2, 2° comma, c. p..In primo luogo, infatti, la disposizione regionale non ha natura penale, limitandosi solo indirettamente a incidere sull'ambito applicativo dei reati di cui si è detto; in secondo luogo e soprattutto, perché dottrina e giurisprudenza sono pressoché unanimi nel ritenere che il significato di legge contenuto nel citato art, 2 c. p. è lo stesso di quello, al quale si è già accennato, conferito al medesimo termine nel contesto dell'art. 25 della Costituzione, vale a dire di atto normativo emanato dal Parlamento.

Di conseguenza, la norma regionale non è applicabile, in quanto più favorevole, ai fatti commessi antecedentemente alla sua entrata in vigore, e non potrebbe comportare, ove questo giudice arrivasse alla determinazione che il fatto sussiste e che l'imputato lo ha commesso, l'assoluzione perché il fatto non è più previsto come reato, che si trova in fase d'indagini, perché i fatti contestati non sono più preveduti dalla legge come reato.

Tuttavia, fra i reati in questione vi è quello di lottizzazione che, nell'ipotesi di condanna e, comunque, in tutti i casi in cui il fatto sia accertato, prevede la confisca dei terreni abusivamente lottizzati e delle opere su di essi costruite.

Ferma restando, come si è detto, la valutazione in ordine all'esistenza del reato, non vi è dubbio che l'istanza, qualora la norma regionale sulla quale la stessa si fonda fosse legittima, dovrebbe essere accolta poiché la giurisprudenza, sia in tema di ordine di demolizione sia in tema di confisca, si è più volte pronunciata affermando che, sino a quando la sentenza di condanna che dispone la confisca (per l'ordine di demolizione anche nella fase dell'esecuzione se la demolizione non è ancora avvenuta) non sia passata in giudicato: “(...) la successiva adozione di un piano di recupero urbanistico dell'area abusivamente lottizzata da parte del consiglio comunale o la successiva autorizzazione a lottizzare, anche se atti non idonei ad incidere sulla penale responsabilità dei soggetti coinvolti, impedisce che con la sentenza di condanna venga disposta la confisca prevista dall'art. 19 della legge 28. 2. 1985, n.47 e, se la confisca sia stata disposta, ne impone la revoca, atteso che diversamente il provvedimento giurisdizionale si renderebbe incompatibile con l'esercizio dei poteri legislativamente attribuiti alla pubblica amministrazione." (Cass,, sez. III, 5 dicembre 2001, Venuti e altri).

Ora, non vi è dubbio che se la confisca non può essere disposta o deve essere revocata tutte le volte che essa risulti incompatibile con un legittimo provvedimento amministrativo, a maggior ragione non possa essere applicata qualora sia una legge, anche se regionale, a rendere legittima un'attività prima integrante gli estremi di una lottizzazione abusiva.

A maggior ragione se volesse ritenersi che la disposizione di cui si tratta ha determinato un fenomeno di successione di leggi penali nel tempo riconducibile all'art 2, 2° comma, c. p., allora la rilevanza della questione sarebbe ancor più evidente per la sua incidenza sul piano del giudizio di colpevolezza.

Va infine rilevato come la questione di costituzionalità sia già stata sollevata dal giudice per le indagini preliminari presso questo tribunale, ma che come insegna la suprema corte In tema di pregiudiziale costituzionale, la sospensione del giudizio ai sensi dell'art. 23 della legge 11 marzo 1953 n.87 consegue obbligatoriamente solo alla trasmissione degli atti alla Corte costituzionale, che il giudice dispone previa delibazione della rilevanza nel procedimento in corso e della non manifesta infondatezza della questione sollevata; ove pertanto una questione di legittimità costituzionale sia stata rimessa alla Consulta in un procedimento diverso, non può configurarsi l'esistenza di una pregiudiziale in senso proprio con conseguente obbligo del giudice di sospendere il dibattimento.

Reputa questo giudice che anche per le ricadute che la scelta di sospendere il dibattimento senza trasmissione degli atti alla Corte Costituzionale avrebbe sulla regime della prescrizione, non corrisponderebbe ai principi di buona amministrazione della giustizia, non sollevare la questione di costituzionalità di una volta che la stessa sia stata ritenuta non manifestamente infondata e rilevante, solo perché la questione già pende dinanzi alla Corte

P.Q.M.

Dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di costituzionalità dell'articolo 20 della legge regione Sardegna 8 novembre 2011 numero 21 in relazione agli articoli 3, 25 comma 2, 117 comma 2 lettera L, 118 della costituzione e 3 comma 1 della legge costituzionale 26 febbraio 1948: "Statuto speciale per la Sardegna".

Sospende il presente procedimento e dispone l'immediata trasmissione degli atti alla Corte Costituzionale, unitamente alla prova dell'avvenuta notificazione della presente ordinanza al presidente della Giunta Regionale Sarda e della comunicazione della stessa al presidente del Consiglio Regionale della Sardegna, che dispone sia effettuata a cura della cancelleria.

La presente ordinanza viene letta in udienza all'imputato, al suo difensore ed al pubblico ministero presenti.

 

Oristano 8/2/12

Il Giudice

Modestino Villani